La vera storia del curry

La vera storia del curry

Amato in tutto il mondo ma difficile da definire, frutto dell’unione di aromi e spezie, il curry è testimonianza della creatività e della resilienza dello spirito umano.

“A volte il fine giustifica i mezzi” mi dice Chintan Pandya, chef e socio di diversi eccellenti ristoranti indiani a New York, con un’espressione divertita. Ci troviamo al Dhamaka, il suo ristorante di cucina regionale “orgogliosamente indiana” affacciato sulla vivace Delancey Street nel Lower East Side di New York. Lo chef lascia cadere una manciata di foglie di curry in una piccola pentola di alluminio contenente olio di cocco caldo e semi di senape appena saltati. Le foglie sfrigolano e diventano di un verde intenso, quasi nero. Mette la pentola da parte per parlare del curry, forse uno dei cibi più controversi e allo stesso tempo più amati al mondo.

«Innanzitutto, credo che si tratti di un termine britannico. Noi usiamo la parola kari in modi e forme diverse, mentre la percezione [occidentale] del curry è quella di una qualsiasi pietanza con una salsa a base di curry — dice Pandya —. Lo chiamano “curry di pollo al burro”. Ma non è così; è solo pollo al burro». Quando aveva venticinque anni, Pandya, il quale si definisce “uno chef indiano per caso”, si è lanciato nell’apprendimento delle sconfinate tradizioni regionali del paese dopo che il gruppo alberghiero Oberoi, per il quale lavorava, lo aveva incaricato di occuparsi di cucina indiana. Così, si è presentato alle porte di altri ristoranti dello stesso gruppo, a volte viaggiando in treno per 18 ore per visitare il Kashmir, il Rajasthan, il Gujarat e Calcutta e chiedendo agli chef di svelargli le loro ricette casalinghe – spesso cercando di corromperli con una bottiglia di whisky. È stato allora che Pandya ha iniziato a riflettere sulla natura del curry.

«Da piccolo sentivo spesso la parola “curry”, anche se non era un termine poi così comune. Sono cresciuto a Mumbai in una famiglia vegetariana e non abbiamo mai mangiato qualcosa che avesse questo nome — racconta —. Ma i miei vicini, che mangiavano carne, dicevano: “Ok, oggi prepariamo il curry di pollo”. Che, nell’India del sud, è kari. In ogni caso, andava bene così». È proprio questo l’aspetto divertente del curry: è un termine scivoloso. Può indicare un piatto specifico in una certa cultura (come il kare raisu giapponese) o una categoria a sé stante in un’altra (come in Thailandia). Può essere usato in foglie, in polvere o diventare una salsa. La maggior parte dei curry proviene dalla diaspora indiana, a eccezione di quelli thailandesi e malesi, che hanno una propria discendenza.

Il curry sembra soffrire di un’instabilità esistenziale: non è semplicemente una ricetta bensì la manifestazione di un fenomeno che deve essere percepito e compreso per esistere. Non a caso la food writer di base a Londra Sejal Sukhadwala ha intitolato il suo tomo sull’argomento The Philosophy of Curry. Gran parte della confusione, ovviamente, è dovuta al fatto che la parola curry è stata usata da una potenza imperialista, la Gran Bretagna, per descrivere una serie di piatti preparati da molte comunità diverse di un’altra cultura. È stato quindi un termine problematico, appesantito dal peso di un dominio coloniale brutale e senza scrupoli: un economista ha stimato che sotto gli inglesi siano stati sottratti al paese 45 trilioni di dollari. Mentre l’ex sottosegretario generale delle Nazioni Unite, Shashi Tharoor, ha scritto che l’impero coloniale britannico ha provocato la morte di decine di milioni di indiani con inutili carestie. Secondo Sukhadwala, invece, la parola curry può essere fatta risalire ai portoghesi, i quali usavano caril a Goa nel XVI secolo. Potrebbero averlo adattato da kari nelle lingue malayalam, kannada o tamil — con il significato ultimo di “salsa speziata”. In portoghese, il plurale di caril era carie o curree, che gli inglesi hanno ulteriormente trasformato in curry. Dopo che gli ufficiali della Compagnia Britannica delle Indie Orientali si stabilirono in India nel XVII secolo, questi si appassionarono ai piatti locali, senza però cogliere le sfumature culinarie del paese, come nota Sukhadwala. Finirono così per mischiare maldestramente tecniche e tradizioni culturali diverse. L’India è la settima nazione più grande del mondo, con una superficie totale di 3.287.000 chilometri quadri (circa 13 volte la Gran Bretagna), con climi variabili, influenze antiche (commercianti arabi, coloni ebrei, mongoli, persiani) e molte religioni (induismo, islam, giainismo, buddismo), oltre a caste e altre sette. In una nebbia di arroganza e ignoranza imperiale, gli inglesi hanno fatto confluire questa enorme diversità in un unico curry, per poi ricontestualizzarlo secondo una classifica di piccantezza. Fu proprio in un club per gentiluomini di Calcutta, il Bengal Club, che i curry venduti ai giocatori di golf furono distinti tra mild, medium e hot; una consuetudine che si diffuse in Gran Bretagna e in altri paesi occidentali per etichettare diverse cucine, come quella thailandese. Ma gli inglesi non sembravano nemmeno comprendere le spezie. Almeno due dei primi scrittori britannici di cucina sostenevano, infatti, che le polveri di curry erano migliori della miscela di spezie preparata in casa, e uno di loro affermava addirittura che le spezie migliorassero con il passare del tempo. La polvere di curry commerciale – una miscela che spesso includeva coriandolo, curcuma, fieno greco, pepe nero, cumino e zenzero – si diffuse in tutto l’impero. Prima della Rivoluzione Americana, il curry in polvere era uno dei beni di lusso che i coloni benestanti potevano ordinare (un’inserzione del 1771 sulla South-Carolina and American General Gazette lo descrive come una “miscellanea di BONTÀ europee e orientali”). Naturalmente in India esistevano miscele di spezie di innumerevoli tipi, ma l’idea che ogni stufato speziato fosse riconducibile a un unico profilo di sapore fu una trovata esclusivamente britannica. «La Gran Bretagna è stata [la creatrice] del curry in polvere — dice Pandya a proposito della storica dissociazione dell’India da questo prodotto —. Noi non l’abbiamo mai usato; per noi è stato molto buffo osservare l’evolversi di questa situazione».

In Gran Bretagna i ristoranti che usavano questa spezia così controversa si diffusero largamente, e molti furono un trampolino di lancio finanziario per gli imprenditori stranieri, anche se non tutti con lo stesso successo. Il primo ristorante indiano di Londra, l’Hindoostane Coffee House (1810), chiuse dopo un anno. Ma altri ristoranti di proprietà di immigrati, come Kohinoor e Shafi’s, entrambi aperti negli anni 20 e frequentatissimi dagli studenti indiani, diventarono molto popolari. Qualche decennio più tardi, ex marinai del Bangladesh — molti dei quali avevano lavorato in locali come Veeraswamy (il ristorante indiano più longevo di Londra) — rilevarono alcuni negozi di fish and chips bombardati durante la Seconda guerra mondiale. Servivano lo stesso menu alla clientela della classe operaia bianca, ma aggiungevano il curry ai loro piatti e rimanevano aperti fino a tardi, per i bevitori di ritorno dai pub. Secondo Sukhadwala, i ristoratori non avevano tempo a sufficienza da dedicare alla cucina indiana tradizionale (lunghe cotture a fuoco lento, macinatura delle spezie, procedimenti da fare a più riprese, e così via), per cui apportarono innovazioni vicine a quelle dei fast food, come l’aggiunta di pasta di cipolle bollite come addensante. Alla fine, i clienti iniziarono a ordinare il curry come condimento per le patatine fritte e la sua popolarità finì per destituire i piatti inglesi dal menu di quegli stessi ristoranti. Ma il curry ha fatto anche il giro del mondo, in gran parte attraverso i flussi dei lavoratori dopo che l’impero britannico abolì la schiavitù nelle sue colonie nel 1833, come racconta Lizzie Collingham in Curry: A Tale of Cooks and Conquerors. A partire dal 1838, gli operai indiani che firmavano contratti di lavoro nella speranza di sfuggire all’assoluta povertà furono inviati in Demerara, Mauritius, Trinidad, Guyana, Giamaica, Malesia, Sri Lanka, parti dell’Africa e isole Figi.

«I curry si sono diffusi nei Caraibi per via della tratta degli schiavi, molti dei quali giunsero qui per lavorare nei campi di canna da zucchero — spiega la chef Nina Compton, originaria di Santa Lucia —. Purtroppo, alcuni dei cibi più antichi e oggi confortevoli, come il curry, non erano altro che alimenti di sussistenza. Il cibo ha ancora a che fare con la sopravvivenza, la consolazione e l’unione delle persone». Da bambina, Compton ricorda che il curry era il pasto principale, accompagnato dal pane roti, e che per prepararlo raccoglieva le foglie di alloro dal giardino della sua famiglia. Quando gli inglesi presero il controllo del Sudafrica portarono con sé manovalanza proveniente soprattutto dall’India del sud per lavorare nelle raffinerie di zucchero e nelle piantagioni di tè. Durante l’apartheid, ai sudafricani di colore fu vietato l’accesso ai ristoranti. Così, i negozianti indiani finirono per trasformare il curry quasi in merce da contrabbando – nascondendolo abilmente all’interno di panini scavati, venduti dalle porte sul retro. Una sorta di piccola resistenza in nome delle spezie. Ma la diffusione del curry attraverso le rotte della colonizzazione non ebbe a che fare solo con gli inglesi. Secondo Colleen Taylor Sen in Curry: A Global History, anche i portoghesi condussero molti degli abitanti di Goa nelle colonie degli attuali Angola, Madagascar, Mozambico, Zanzibar e Guinea Equatoriale. Il curry è adorato anche in Africa occidentale, dove potrebbe essere giunto dalla Guinea portoghese o dal Gambia britannico. Pierre Thiam, proprietario del marchio Yolélé e della catena di ristoranti di cucina dell’ovest dell’Africa Teranga a Manhattan, è cresciuto in Senegal mangiando curry di agnello e di pollo, preparato con patate, carote e cavolo e servito sul riso. Era un piatto che sua madre presentava con orgoglio quando aveva ospiti a cena. In quella zona esistevano diversi tipi di stufati speziati, ma il curry era caratterizzato da una combinazione aromatica specifica: curcuma, cumino e coriandolo. Thiam non immaginava che il curry non fosse un cibo esclusivamente senegalese finché non ha lasciato il suo paese. «Quello del curry era un territorio inesplorato — afferma —. Una volta arrivato a New York, ho iniziato a scoprire piatti thailandesi, indiani e un’infinita varietà di altri tipi». E, ancora oggi, si tratta di un mondo in continua espansione.

La febbre del curry si è diffusa meravigliosamente anche in Giappone. «Il curry giapponese è stato scelto come piatto nazionale e ciò dimostra quanto la gente lo prenda sul serio — afferma Sonoko Sakai, autrice di Japanese Home Cooking —. Qui si mangia circa una volta e mezza alla settimana». Durante la Restaurazione Meiji (1868- 1889) il Giappone, dapprima isolato, si aprì al mondo e i commercianti portoghesi, gli ufficiali anglo indiani e i missionari portarono con sé ognuno il proprio curry. La ricetta del curry giapponese prevede una proteina di origine animale (di solito pollo o manzo) cotta a fuoco lento con carote, cipolle, patate e un roux o polvere di curry, ed è spesso accompagnato da verdure sottaceto e servito con riso o udon, e a volte con tonkatsu. All’inizio, come dice Sakai, era “un cibo sofisticato per l’alta società”. Ma ben presto sia l’esercito che le scuole aggiunsero il curry ai loro menu — un piatto facile da preparare e servire in grandi quantità. Verso la metà del XX secolo il mercato giapponese ha visto il lancio di roux di curry già pronti – polvere di curry addensata con burro e farina – tra cui il popolare Vermont Curry (addolcito con mela e miele): una sorta di dado di curry. La sua industrializzazione, però, ne ha del tutto nascosti la composizione e il metodo di preparazione. «Pensavo che il curry fosse un albero», dice Sakai, che oggi compone la sua miscela utilizzando spezie fresche. Se c’è un filo conduttore nelle tante storie del curry, si tratta delle spezie. Dopotutto, è stata proprio la ricerca delle spezie a livello mondiale a determinarne l’evoluzione concettuale. Fino al XV secolo erano i commercianti arabi a controllare la via delle spezie, alle quali applicavano prezzi esorbitanti, mentre inglesi, portoghesi, olandesi e francesi facevano a gara per stabilire le proprie rotte dirette. Dice Compton: «La curcuma è stata portata dai nostri antenati. Noi la inseriamo nelle nostre pietanze anche per ricordare chi ci ha preceduto. È una forma di rispetto e ci teniamo a mantenere questa tradizione. La curcuma che impieghiamo è coltivata localmente, mentre l’alloro e la cannella arrivano dalle isole. E poi ancora l’anice stellato, il coriandolo, il cumino, il peperoncino scotch bonnet e il cardamomo verde: non c’è buon curry senza cardamomo».

Il curry, con la sua turbolenta storia colonialista, porta con sé lo spirito di sopravvivenza degli esseri umani: quello degli intraprendenti bengalesi che si sono fatti strada in paesi stranieri con pentole di curry “hot” e “mild”, degli antenati dei lavoratori schiavizzati dei Caraibi che oggi raccolgono foglie di alloro dai loro giardini o ancora dei ristoratori indiani che passavano in gran segreto panini ripieni di curry ai sudafricani durante l’apartheid. Se non altro, il curry è l’emblema dell’insopprimibile creatività degli oppressi che colgono tutte le opportunità, per quanto minuscole, per sovvertire gli strumenti dei loro oppressori, per poi finalmente liberarsene. In Gran Bretagna, mentre il numero di “curry house” della Brick Lane di Londra si è ridotto a un terzo, ci sono oggi ben otto ristoranti indiani stellati Michelin, mentre i cuochi casalinghi preparano le loro miscele di spezie consultando le ricette di autori indiani e britannici sui libri di cucina. Quando Chintan Pandya ha iniziato a lavorare come cuoco, anche in India questa cucina non era tanto prestigiosa quanto quella occidentale. Ma questo non l’ha scoraggiato dal voler diventare uno chef proprio di cucina indiana. «Penso che nel vuoto si nascondano sempre molte opportunità», dice a proposito della sua scelta di evitare un percorso professionale, allora più prestigioso, nell’ambito della cucina europea. A poca distanza dalla curry row di New York (un’area affollata di ristoranti indiani nell’East Village) si trova Dhamaka, uno dei ristoranti più famosi d’America. La parola curry non compare da nessuna parte sul menu. Ma si potrebbe dire che, in realtà, sono state proprio le strade del curry, ormai antichissime, a spianare la strada alla creazione di posti come questo. Tuttavia, sottolinea Pandya con una risata e una scrollata di spalle, il termine curry è invece molto usato oggi in India per riferirsi ad alcune categorie di piatti. E forse, in fondo, non c’è niente di male.

La storia del curry thai

Se da un lato la diffusione del curry può essere attribuita alle conseguenze della diaspora indiana, quella del curry thailandese, dall’altro, racconta una storia diversa. Si narra che secoli fa i commercianti indiani e i missionari buddisti condividessero spezie e aromi come il tamarindo, il cumino, lo scalogno e il lemongrass in tutto il Regno del Siam (ribattezzato Thailandia nel 1939). Nel XIII secolo, questi ingredienti divennero la base del nam prik, un condimento versatile utilizzato come salsa per una serie di piatti chiamati gaeng, kaeng, gang o geng, oggi noti come curry  thailandesi. Tra il XIV e il XVIII secolo, a questi piatti si aggiunse il kapi, la pasta di gamberi. In seguito, con l’arrivo dei mercanti portoghesi nel XVI secolo, arrivarono i peperoncini piccanti. Dopo la guerra del Vietnam, quando un numero sempre maggiore di occidentali iniziò a conoscere la cucina thailandese, le diverse varietà di gaeng iniziarono a essere indicate come generici “curry thailandesi”. Nel 2001, il governo thailandese ha condotto una campagna di gastro-diplomazia che comprendeva l’iniziativa Global Thai, mirata a diffondere la cultura dei ristoranti thai in tutto il mondo. In quell’ambito, molti locali adottarono ovunque menu identici, curati dal governo stesso, tra cui una serie di “curry thai” standardizzati a base di latte di cocco presentati ancora oggi: un curry rosso piccante a base di peperoncino, un curry giallo più delicato a base di curcuma e un curry verde con peperoncino più leggero, a base di lime fresco e basilico thailandese. Nonostante abbia reso questi “curry” un successo mondiale, il progetto ha avuto come effetto collaterale quello di standardizzare ulteriormente una categoria di piatti che, in Thailandia, resta assolutamente regionale e diversificata.—Alexandra Domrongchai

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