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Ostriche

Come (e perché, poi) farne a meno? Crescono anche nel nostro paese la conoscenza e la passione per queste preziose “pepite” di mare

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Si fa presto a dire ostrica. Questo fascinoso mollusco, serrato a quattro mandate nelle sue valve di madreperla, è così, per sua natura, ermetico. E di difficile interpretazione, specie al palato. Per non parlare dei nomi, da interpretare con l’ausilio di Google maps: perché tra Utah Beach, Saint Vaast, Galway, Cancale e Tsarskaya lo smarrimento è garantito. E poi le varietà: tra piatte e concave solo un Europa ne esistono più di 200. Approccio impossibile per gli appassionati neofiti? Assolutamente no. Parola di esperto del settore. «Come il terroir nel vino, nell’ostricoltura il “merroir” (cioè forza di maree, fondo marino, nutrimenti vegetali, nda) fa la differenza, insieme alle tecniche di lavorazione», spiega Corrado Tenace, vero guru del settore e fondatore nel 2014, insieme ad Armando Tandoi, di Oyster Oasis, società di selezione, distribuzione e produzione di ostriche in tutta Italia. Già, ma quali sono le principali varietà? «La Ostrea edulis, od ostrica piatta, è una specie tondeggiante, autoctona, tipica dei nostri mari. La più famosa è la Belon, dal nome del fiume in Bretagna lungo il quale viene allevata», spiega ancora Tenace. «Dopo il XVI secolo fa il suo ingresso in Europa invece la Crassostrea gigas, l’ostrica concava: arriva attaccata al fasciame dei vascelli portoghesi, di ritorno dopo lunghe soste davanti alle foci dei fiumi orientali. La sua diffusione è immediata: in grado di deporre anche 10 milioni di uova, si rivela ben presto più resistente e di più facile accrescimento». E difatti attecchisce nell’Atlantico nord-orientale, specie in Francia, al punto che a metà Ottocento il governo inizia a regolamentarne l’allevamento: oggi rappresenta il 75% della produzione europea. 

Elemento fondamentale: le poderose maree atlantiche, che favoriscono con i loro andirivieni l’accrescimento dei molluschi. I quali, attaccati piccolissimi a pesanti supporti, vengono lasciati crescere per almeno tre anni in mare aperto, per essere poi trasferiti in bacini di affinamento, i cosiddetti “claire”, alle foci dei fiumi, dove le acque più dolci, ricche di plancton vegetale, il caldo e la luce incidono sulla formazione del grasso dell’animale. E, di conseguenza, sul gusto finale. Determinante anche la densità di coltura per metro quadro: meno ostriche verranno concentrate nelle poches, grandi reti in plastica rigida, maggiore sarà la possibilità di filtraggio e accrescimento dell’animale. Ma l’Atlantico non è il solo merroir privilegiato di coltura. A ridurre l’egemonia bretone ci ha pensato 15 anni fa Florent Tarbouriech, vero genio dell’ostricoltura: il quale nella laguna di Thau, ovvero in pieno Mediterraneo, ha ideato un tecnica di allevamento che riproduce il susseguirsi delle maree atlantiche. Le giovani ostriche, incollate una a una a corde sospese in laguna, grazie a un sistema di sollevamento vengono periodicamente fatte uscire dall’acqua, in un dentro e fuori che le irrobustisce e le affina. Dando vita così a un prodotto dal gusto inarrivabile: la sospensione infatti forza il metabolismo dell’animale, che una volta reimmerso nell’acqua, avido di cibo, filtra tantissimi nutrienti, favorendo così la crescita e la qualità delle carni. Un tale sistema di allevamento è oggi praticato anche in Italia nel Parco regionale del Delta del Po, nella Sacca di Scardovari: qui l’azienda Perla del Delta, di cui Oyster Oasis è consulente e distributore esclusivo, produce ogni anno migliaia di ostriche Tarbouriech. Al punto che l’Italia, dopo la Francia, è diventata un vero e proprio leader del settore. Le caratteristiche di questo bivalve mediterraneo? «Un frutto pieno, dal gusto dolce e persistente, con una bella madreperla bianca… tutta una serie di caratteristiche gustative ed estetiche impossibili da riscontrare insieme in altre varietà», racconta Armando Tandoi. 

«Come va gustata? Masticandola, proprio come un filetto, per afferrarne le diverse consistenze: e cioè la croccantezza del mantello e la cremosità della parte posteriore». Ma non basta. Lo scorso marzo a Identità Golose i due soci, entrambi di origini pugliesi, hanno presentato l’Ostrica di San Michele, eccellenza dell’ostricoltura Made in Puglia, allevata nella laguna del Lago di Varano, nel Parco Nazionale del Gargano, con la collaborazione di un consorzio di pescatori locali. «La laguna ha dimostrato di avere le caratteristiche giuste per l’allevamento, tutto manuale», spiega Tandoi. «Acque di categoria A e sorgenti di acqua dolce, unite al sole garganico, fondamentale per la genesi di un fitoplancton eccezionale, garantiscono un ambiente perfetto per lo sviluppo delle nuove ostriche. Quest’anno ne produrremo circa 10 tonnellate, ma puntiamo ad arrivare a 40-50 nei prossimi due anni». Il punto di forza delle San Michele? La consistenza della polpa, molto soda, dal sapore dolce e marino al tempo stesso. Ma sono in grado gli italiani di apprezzare tutte queste varietà? «Siamo all’anno zero», commenta Tandoi. «Non a caso organizziamo degustazioni guidate, con 12 ostriche diverse, in una progressiva escalation di gusto, dalle fines alle spéciales fino alle grand cru. Cosa suggerire a un neofita? Di cominciare sempre da una fine, semplice e iodata, con un goccio di lime o limone. Per stemperare la sapidità».

 

Fotografie di Victor Protasio