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Cibo on the road

Il settore primario è stato uno dei più colpiti dalla batosta sanitaria e socio-economica del covid. Come il made in Italy agroalimentare ha attraversato l’emergenza

cibo on the road

Secondo i dati Coldiretti a marzo 2020 la produzione agroalimentare è crollata di 1,5 miliardi – una riduzione del 6,5% rispetto all’anno precedente. Ristoranti chiusi; turismo pressoché scomparso (si parla di 81 milioni di presenze in meno solo nei primi 3 mesi del 2020); export in calo. Il reparto agroalimentare italiano è andato in sofferenza. Abbiamo visto tutti le file davanti ai supermercati, ma a quanto riportano diverse ricerche di mercato a salire sono stati i consumi di farine, panificati, pasta, dolci e vari generi di “comfort food” (nonché di alcolici) – non proprio frutta e verdura a chilometro zero, insomma. Da quando è cominciata la pandemia, in Italia il 57% delle aziende agricole ha registrato una diminuzione dell’attività.

Coldiretti e mercati contadini
L’organizzazione degli imprenditori agricoli italiani è sempre rimasta in prima linea nella gestione dell’emergenza. Lorenzo Bazzana, responsabile economico Coldiretti, inquadra per noi la situazione: «Abbiamo registrato un calo del 30-35% dei consumi del canale Horeca, quello che valorizza di più l’alta gamma: i tagli migliori della carne, i formaggi più costosi, l’ortofrutta più pregiato. Il problema è stato anche con l’export, perché perfino prima dell’inizio del lockdown l’agroalimentare made in Italy era stato colpito da richieste assurde di certificazioni di status virus-free».

E non è solo un problema di mancate vendite: manca anche la forza motrice. «L’Italia utilizza 370mila lavoratori agricoli. Al momento, tra lockdown e limiti allo spostamento, ce ne mancano circa 200mila. E serve manodopera specializzata, non basta pensare di spostare i disoccupati di altri settori in quello primario. Anche perché quello delle campagne è un lavoro stagionale non indeterminato: quando questa stagione finisce non c’è modo di ricollocare le persone». Durante il lockdown le regioni hanno deciso autonomamente se permettere o meno l’apertura dei mercati e questo ha determinato un crollo del 61% nella spesa contadina. Con la Fase 2, però, anche i farmer’s market hanno riaperto, compresi quelli della rete di Campagna Amica, circa 1.200 in tutta Italia. E la riapertura degli agriturismi è un ulteriore incentivo alla produzione: anche perché acquistare frutta, verdura, uova, miele, e altri prodotti freschi direttamente dalle mani di chi li ha prodotti senza ulteriori intermediari forse offre qualche garanzia sanitaria in più.

Alcuni mercati contadini hanno fatto di necessità virtù e si sono riorganizzati. È il caso del Mercato Ritrovato di Bologna, un mercato contadino che si teneva ogni sabato mattina nel bel cortile della Cineteca. Ci racconta il direttore Giorgio Pirazzoli: «A metà marzo tutti i mercati agricoli sono stati costretti a chiudere. Dopo il primo sabato di ferma noi siamo stati pronti a trovare uno sbocco alternativo. Il Mercato è diventato un sito di e-commerce: su spesa.mercatoritrovato.it abbiamo trovato posto a 30 aziende su circa 50 che potevano vendere direttamente. Si faceva l’ordine il martedì con consegna al sabato: la distribuzione convenzionale ha tempi molto più lunghi! All’inizio riuscivamo a esaurire solo 250 ordini per volta, poi ci siamo organizzati e siamo arrivati a circa 400. È stata difficile da gestire ma davvero soddisfacente, al punto che ora continuerà, anche con la riapertura. Un’occasione straordinaria ci ha portato a far fronte comune, e ci ha aiutato a coinvolgere un pubblico maggiore: il numero di iscritti alla nostra newsletter è raddoppiato».

L’orto a domicilio
Gli italiani, notoriamente poco digitalizzati e meno avvezzi alla spesa online rispetto agli altri paesi europei, hanno scoperto gli innumerevoli vantaggi dell’e-commerce. Che non sostituisce il contatto diretto con il produttore ma in alcuni casi permette comunque di riscoprire l’agricoltura di prossimità. Lo dimostra il boom di consumi di Cortilia, che con il motto “La campagna a casa tua” consegna a domicilio 2.500 prodotti artigianali da più di 200 produttori, scelti ad hoc o in box “alla cieca”. «In base all’incremento del traffico online e su app, e ai trend di ricerca, stimiamo che la domanda sia potenzialmente decuplicata. Un picco repentino che ci ha costretto a contenere gli accessi e che, soprattutto in una prima fase, ha saturato la capacità del magazzino e in parte anche quella della flotta per la consegna a domicilio», ci racconta Marco Porcaro, CEO di Cortilia. «Per quanto riguarda i cambiamenti relativi al basket di acquisti, è difficile paragonare i consumi pre-emergenza con quelli attuali, perché abbiamo solo prodotti stagionali che variano molto spesso. Rispetto all’anno scorso non abbiamo notato grandi differenze, in primavera continuano a piacere fragole e primizie. Se però normalmente la domanda è molto focalizzata sul prodotto fresco, in questa fase abbiamo riscontrato un incremento sui prodotti da dispensa, come farine e lievito, oltre che sull’ortofrutta». Il servizio è attivo solo in alcune provincie di Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna, ma questa particolare situazione ha spinto l’azienda a velocizzare l’incremento della capacità produttiva.

In tutta Italia stanno aumentando le realtà che consegnano le “cassette” di frutta e verdura fresca, spesso bio, da produttori agricoli limitrofi: consegne una tantum o veri e propri abbonamenti per assicurarsi di rispettare la stagionalità e sostenere realtà locali. A Milano, Torino, Genova, Novi Ligure e Alessandria c’è portaNatura, con l’opzione di comprare prodotti come farina, legumi o pasta sfusi, in contenitori in vetro da restituire o riutilizzare; a Bologna c’è Local To You, che raggruppa tre cooperative sociali che lavorano con persone svantaggiate in percorsi educativi e di riscatto sociale. Così la spesa diventa un momento di scoperta di aziende virtuose del proprio territorio.

Latte e carne
Altri prodotti “simbolo” del made in Italy dimostrano che gli italiani hanno continuato a comprare locale. Ci racconta Nicola Bertinelli del Consorzio Parmigiano Reggiano: «Stavamo già vivendo un aumento importante delle vendite che è proseguito anche durante il lockdown. A febbraio +26%, marzo +35%, aprile +18%. Nei primi mesi del 2020 c’è stato un aumento del 4% nel mercato dei formaggi duri. Non ce lo spieghiamo considerando la chiusura dei ristoranti. Forse in molti locali dove sul menù scrivono “Parmigiano Reggiano” servono altro? Ci spieghiamo l’aumento pensando che gli italiani si sono spostati sulle coccole, sui prodotti di marca, con un effetto “magazzino”. Ora ovviamente ci chiediamo: la ristorazione ripartirà, ma come? Il problema sarà anche per la ristorazione italiana fuori dai confini: gli Stati Uniti rappresentano il nostro secondo mercato estero. Diciamo che nei primi quattro mesi dell’anno il segno delle vendite era positivo, nei secondi mesi dell’anno ci aspettiamo un segno negativo. Ma non siamo preoccupati. Gli italiani ci vogliono molto bene: l’abbiamo già visto con il terremoto del 2012».

Secondo il rapporto ISMEA “Emergenza Coronavirus, cosa succede a latte e carne?” la chiusura del canale Horeca ha avuto un forte impatto sul settore, specialmente sulle vendite dei caseifici molto legati alla ristorazione, e al collocamento di prodotti come i formaggi freschi e il latte fresco per la chiusura di bar, pasticcerie, gelaterie. Anche nel caso delle carni i problemi maggiori sono stati per i tagli e le tipologie per cui l’Horeca era il canale prevalente di distribuzione. Un calo delle vendite che si è accompagnato a problemi di gestione delle stalle (ad esempio l’80% dei nostri vitelli da ingrasso proviene dalla Francia). In realtà alcuni trend positivi ci sono stati: il consumo di salumi e affettati è cresciuto del 17%, anche se non tutti sono prodotti italiani (il nostro non è l’unico paese ad avere registrato problemi con l’industria della carne. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli allevatori si sono trovati costretti a sopprimere i suini perché i macelli e le fabbriche della fiorente industria della carne lavorata americana stavano chiudendo).

Oltre alla retorica, quali prospettive?
La retorica dell’emergenza Coronavirus come opportunità e del “Ne usciremo migliori” è, appunto, solo retorica. Ma c’è da sperare che qualche buona abitudine adottata in questo periodo rimanga. Francesco Sottile dell’esecutivo nazionale di Slow Food ci ha raccontato che iniziative ha attuato l’associazione: «Dall’inizio dell’emergenza ci siamo subito resi conto di una cosa: era la grande distribuzione a farla da padrone, mentre il mondo dei produttori a cui ci riferiamo era andato in affanno; c’è stata una fortissima contrazione dei prodotti agricoli di prossimità, la gente è andata a fare la spesa online, le strutture agrituristiche hanno chiuso». Come si è mossa Slow Food? Prima di tutto la piattaforma web e app “Slow Food In Tasca” è stata estesa anche ai non soci. Ogni regione ha poi sviluppato le proprie iniziative per aiutare i produttori a consegnare a domicilio. E infine sono state raccolte oltre 6.500 firme con l’appello “Ripartiamo Dalla Terra” dove i Cuochi dell’Alleanza, che nei loro ristoranti utilizzano prodotti Slow Food, hanno ricordato l’importanza del “lavoro quotidiano di contadini, allevatori, casari, viticoltori e artigiani che producono con passione e rispetto per la terra e per i loro animali”, sollecitando il governo a sostenerli.

Con il ritorno ai ristoranti, c’è da sperare che si privilegino cuochi che lavorano con aziende locali. O che, anche quando fuori dai supermercati non ci saranno più code chilometriche e si potrà uscire tranquillamente, si continui a comprare la cassetta del contadino, da ricevere a casa o ritirare al mercato. Non per un idealistico ritorno a una vita lenta e romantica, ma perché lo strano tempo dilatato di questi mesi ci ha dato l’opportunità di scoprire le realtà locali, riflettendo sull’importanza di fare una spesa ragionata, consapevole e sostenibile, anche sfruttando gli strumenti digitali a nostra disposizione. Magari privarcene per molto tempo ci ha fatto capire che privilegio sia poter passare il weekend in un agriturismo o stringere la mano a un produttore al mercato.

Manodopera, a che prezzo?

I due mesi di lockdown hanno reso più evidenti le problematiche di una nicchia particolare del lavoro sommerso: quella dei braccianti. Il blocco della circolazione ha impedito alla manodopera straniera di arrivare, o di muoversi da un campo all’altro, e i lavoratori già presenti sul territorio non avevano garanzie sanitarie. Il Ministro delle Politiche Agricole Alimentari Teresa Bellanova è riuscita a ottenere la sanatoria per regolarizzare circa 200mila braccianti coprendo sia i lavoratori – italiani e stranieri – con permesso, sia quelli senza permesso, almeno per sei mesi. Prima dell’ufficializzazione del provvedimento avevamo sentito Patrick Konde del Coordinamento Lavoratori Agricoli USB, che ha fortemente criticato la sanatoria, chiedendo maggiori diritti. «In questo momento occuparsi dei braccianti non è solo una questione lavorativa. È una questione di umanità. Di salvare la vita delle persone. Come puoi dire “Stai a casa” a chi una casa non ce l’ha? Come fanno, se non sono iscritti all’anagrafe, ad avere un medico di base? La frutta arriva sulle nostre tavole e non sappiamo chi la raccoglie. Come il rider con la pizza: vedi solo il cibo e non quello che c’è dietro. Non ti viene in mente la sofferenza di chi è sfruttato e guadagna poco. Non percepisci il dolore dietro gli spaghetti al pomodoro. Inoltre, soprattutto al Sud, la gestione è in mano alla criminalità organizzata. Per i braccianti è molto difficile organizzare un percorso di rivendicazione dei diritti: per loro non ci sono centri di impiego o un ispettorato del lavoro. E la colpa è soprattutto della grande distribuzione che sfrutta tutto il settore agricolo».

 

foto Alberto Peroli