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I vesuviani: rinascita all’ombra del vulcano

Un terroir unico, vini sapidi e longevi. Aziende familiari attente alle pratiche agronomiche. Il Vesuvio enoico sta vivendo una nuova fase

A chi vive alle falde di un vulcano si chiede sempre: «Ma non hai paura?». Si tira in ballo il fatalismo, soprattutto se si pensa alla gente del Sud, ai napoletani, agli abitanti del Vesuvio, il gigante dormiente dal 1944, data dell’ultima eruzione. Un vulcano attivo, ma anche un’icona mondiale. A guardarlo da lontano richiama distruzione. Per chi lo vive e ci lavora è creazione. Questa è la risposta dei “vesuviani”: il Vesuvio crea e ricrea. Nel XVIII secolo Napoli fu la città europea più popolosa dopo Parigi, grazie alla terra nera del vulcano, alla fertilità dei suoli. Qui cresce di tutto: frutta, ortaggi, uva. La viticoltura è sempre stata centrale nell’economia locale. Le testimonianze più importanti arrivano dall’altro “oro” di queste zone, il patrimonio archeologico: Pompei, Ercolano, Oplonti potrebbero essere raccontate anche attraverso il vino, alimentando uno storytelling del Vesuvio enoico che sta vivendo una nuova fase, fatta di attenzione alle pratiche agronomiche, alla produzione e alla comunicazione. 

LA CATALANESCA, L’UVA DEL RE CHE CRESCE SUL VECCHIO SOMMA

Ciro Giordano è un pezzo importante di questa rinascita del vino vesuviano, come produttore e presidente del Consorzio Tutela Vini del Vesuvio. Con lui sono arrivati i contrassegni per la Doc e la possibilità di mettere in etichetta il nome del vitigno. Cantine Olivella è la realtà vitivinicola sua e di altri due soci, Andrea Cozzolino e Domenico Ceriello. Un progetto nato quindici anni fa a Sant’Anastasia, sul versante Nord, dove sarebbe più corretto parlare di vini del Monte Somma (il vulcano più antico è questo, il Vesuvio nasce dall’eruzione del 79 d.C.). Solo uve autoctone, Piedirosso, Aglianico, Caprettone e soprattutto la bianca Catalanesca, “l’uva del re”, arrivata dalla Spagna con Alfonso I d’Aragona nel XV secolo. Per ora si è guadagnata la denominazione Monte Somma Igt, ma Ciro punta alla Doc e alla crescita del vigneto su tutta l’area (ad oggi una quindicina di ettari dichiarati). «Fino agli anni ‘70 del secolo scorso – racconta Giordano – a Sant’Anastasia c’era la festa della Catalanesca, dove i contadini portavano in piazza i grappoli più belli. Si faceva il vino ma si vendeva anche bene come uva da tavola per la sua buccia croccante e il sapore zuccherino». Poi l’arrivo delle uve dalla Puglia a prezzi più accessibili ha fatto trascurare i vigneti a favore degli albicocchi. Intanto molti contadini si erano trasformati in operai per l’insediamento di fabbriche automobilistiche come l’Alfasud. Si sono perse un paio di generazioni ma, alla spicciolata, i giovani stanno tornando per il vino e anche per il pomodorino del piennolo, il miele e l’ortofrutta. Tra i vigneti di Cantine Olivella – piccoli appezzamenti sparsi in diversi comuni – più che alla minaccia del vulcano si pensa alla fatica del salire e scendere tra i cognoli – le punte del Monte Somma – e i valloni per piantare i vigneti, talvolta quasi in bilico su strapiombi. La natura è rigogliosa grazie alla potenza di un suolo ricco di minerali come silice potassio, ferro, fosforo (se ne contano oltre 250 specie) che rende abbagliante anche d’inverno il verde del sovescio – fava, avena, lenticchia – tra i filari. 

LA LONGEVITÀ DEI BIANCHI DI VILLA DORA 

Oggi l’intero vigneto vesuviano è grande quanto una grossa azienda toscana, 260 ettari, praticamente tutto a piede franco, con il versante Nord che già annuncia l’Appennino e quello meridionale che sa di mare e Mediterraneo. Tra i due c’è il paese di Terzigno dove, nell’azienda Villa Dora di Vincenzo Ambrosio, si possono aprire bottiglie dei primi anni Duemila. Il tema è quello della longevità dei vini del Vesuvio che qui vincono la sfida del tempo. «Se mi ritrovo etichette di Lacryma Christi (la prima denominazione vesuviana, ndr) così datate in cantina – spiega Vincenzo – è perché si faceva fatica a vendere il vino dell’anno precedente. Oggi invece queste bottiglie catturano l’interesse delle case d’asta». Intorno alla Villa si estende la pergola vesuviana, il sistema d’impianto a tendone piantato dopo l’eruzione del ’44 e tutta la tenuta è stretta da 3mila alberi di ulivo piantati nella roccia nera. Il bianco Vigna del Vulcano evidenzia le potenzialità di un’altra uva del posto, il Caprettone, per tanti anni confusa con la Coda di Volpe. Solo di recente ha conquistato un suo profilo genetico. A differenza della Catalanesca parte da una trama neutra. Il tempo invece sa renderlo “vulcanico” con sentori sulfurei e di pietra focaia. 

LA BEST PRACTICE ENOTURISTICA DI CANTINA DEL VESUVIO

Il successo dei vini che nascono su strati millenari di magma è ormai globale. In Italia le bottiglie Etna Doc sono così famose da non aver bisogno della parola “Sicilia”. Eppure l’icona del Vesuvio non ha pari: su Google è sinonimo di vulcano. Possono i vini fare il pari con la sua celebrità? Maurizio Russo ne è convinto da oltre vent’anni. Cantina del Vesuvio è nata a Trecase nel 1996 – siamo più a Sud, dove il vulcano guarda la costa – con un’idea precisa, puntare sull’enoturismo: «Non mi interessava vendere a ristoranti ed enoteche – ricorda Russo – però volevo etichettare le mie bottiglie. A chi venderle? Ai turisti, che bisognava però deviare dal percorso standard Sorrento-Pompei-ascesa al cono-pranzo al sacco. Ho cominciato a distribuire biglietti da visita e brochure alle agenzie di viaggio. Un po’ alla volta i turisti sono arrivati. Oggi io e la mia famiglia siamo impegnati da marzo a gennaio e l’intera produzione, circa 70mila bottiglie, viene venduta a chi ci fa visita». Il prossimo passo è quello del figlio Giovanni, 21 anni, che con il mercato vuole tornare a confrontarsi. Da qui la nascita di una nuova linea di vini superiori da vendere nel canale Horeca. 

DA BENIGNA A BENNY, LA STORIA AL FEMMINILE DEI SORRENTINO

Nel raggio di pochi chilometri, tutte le aziende sul versante sud-ovest affacciano sul Golfo di Napoli. Tra queste c’è Sorrentino a Boscotrecase, che ha puntato sul wine tasting. È la realtà con i numeri più “grandi”: 35 ettari di vigneto per circa 230mila bottiglie. Azienda molto al femminile, con le sorelle Benny e Maria Paola, rispettivamente enologa e responsabile dell’accoglienza, a dare il benvenuto e a ricordare un’altra donna, Benigna, la nonna che possedeva qui un moggio (un terzo di ettaro) dove coltivava gli autoctoni a piede franco, le cui piante secolari rappresentano oggi lo storico dell’azienda da cui ricavare le talee. Si lavora su diverse altimetrie, con vigne fino a seicento metri che si fanno spazio tra colate e rocce laviche. «Gli stranieri che portiamo quassù – racconta Maria Paola – sono attratti dalla stratigrafia dei terreni. Ogni colore racconta un’eruzione e una tragedia, ma spieghiamo loro anche l’importanza della fertilità rinnovata da tanta materia organica. L’eruzione del ’44 ha rigenerato il suolo. Dopo una giornata di pioggia il verde dei licheni fa brillare ogni cosa, sembra di stare in una fiaba». Una magia che cattura anche i visitatori, che possono scegliere di dormire tra le vigne grazie a case coloniche trasformate in B&B o dedicarsi all’ippovia tra i filari. 

DA POMPEI AL RINASCIMENTO: L’ENOARCHEOLOGIA DI BOSCO DE’ MEDICI 

Da queste parti, appena si scava, spunta la Storia. A Pompei c’è anche quella di un ramo della famiglia fiorentina dei Medici che, a Ottaviano, nel XVI secolo, si occupò di viticoltura. Una parte di quei terreni è tornata a fare vino – ma anche accoglienza e ristorazione – con la nascita della Bosco De’ Medici Winery, una delle ultime realtà nate alle falde del vulcano. Si tratta di due famiglie in società, Palomba e Monaco, con un’età media dei proprietari intorno ai trent’anni. Gli scavi di Pompei sono davvero a un tiro di sasso – il grosso per la produzione è invece tra Terzigno e Boscoreale – e anche il vigneto sperimentale in azienda copre un mausoleo di tombe dove spagnoli e americani conducono ricerche universitarie. Il percorso enoarcheologico parte da qui, prosegue con le anfore in terracotta per le microvinificazioni e si conclude con un menu ispirato alle ricette di Marco Gavio Apicio (il cuoco dell’imperatore Tiberio). 

LA VIGNA STAIRWAY TO HEAVEN DI CANTINE MATRONE

Tra il cono e il mare soffia sempre vento, tanto che la strada che porta a Cantine Matrone si chiama “Via Fruscio”: «Serve anche quello perché, insieme ai terreni sabbiosi, allontana il pericolo di malattie della pianta». Andrea Matrone vive e lavora a Boscotrecase. Non ha storie di avi che facevano il vino. Il cugino notaio investe nell’acquisto di appezzamenti, gli amici gli danno una mano per costruire l’impianto di refrigerazione. La storia è ancora tutta da scrivere, la prima annata in commercio è la 2014. «Ho studiato enologia a Firenze, sono stato in Nuova Zelanda, Australia, Napa Valley – continua Matrone – ma tornato a casa non avevo le idee chiare. Ho pensato anche di fare il liutaio. Una cosa la sapevo, volevo vivere qui». L’acquisto del primo vigneto fa sparire i dubbi esistenziali. Oggi il cuore dell’azienda è in contrada Ciaramelle, con uva Piedirosso ad alberello nel mezzo di un canale lavico del 1906, ispirato ai terrazzamenti etnei: «L’ho chiamato vigna Montagna e qui c’è anche la casa dove voglio vivere, per svegliarmi alle 5 e andare a dormire alle 19». I bianchi, Caprettone principalmente ma anche Falanghina, hanno la vista più bella: «Vorrei chiamare questo vigneto Stairway to Heaven, come la canzone dei Led Zeppelin – svela – perché fai un passo e scorgi Capri, ne fai altri tre e hai davanti tutta la penisola sorrentina». L’obiettivo è arrivare a dieci ettari, a 50mila bottiglie e lavorare questi terreni di cenere e sabbia che da queste parti chiamano “tuono”. Enoturismo? No, grazie. Piuttosto Andrea ha chiesto in gestione la vecchia stazione dei treni al sindaco di Boscotrecase. Vuole farci un ritrovo per i ragazzi del paese, dove bere i vini del Vesuvio e dove far sparire i dubbi esistenziali.