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Viva l’Italia

Linguaggi e modelli più snelli e dinamici, sinergie, filiere più corte, rapporto con il cliente ripensato. Senza perdere di vista ricerca e “sostanza”. Dai premiati ai F&W Italia Awards, qualche idea su come cambierà il sistema ristorazione.

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Il tema del numero doveva essere tutt’altro (e ci perdonerete se per ora non ve lo sveliamo). Nel frattempo, avremmo voluto celebrare i protagonisti “gastronomici” (chef, pizza chef e pastry chef ) della prima edizione dei Food&Wine Italia Awards in una serie di “flash talks” nel corso di Identità Golose. Un modo di coinvolgerli e far sentire la loro voce, con un format dinamico, anche spericolato (per alcuni dei temi previsti). Poi è successo quel che è successo. Flash talks rimandati, quindi. E il tema del numero sono diventati loro – loro e ciò che rappresentano: una ristorazione giovane, che non ha voglia di mollare, e men che meno di conformarsi.

Non c’è niente di standard nel modo in cui i personaggi di queste pagine intendono la cucina, la pizza, i dessert. Pensiamo a Davide Caranchini (ristorante Materia, una stella Michelin), premiato come Miglior Chef under 35, che dall’apprendistato in Francia e Danimarca è tornato sul suo lago di Como, a Cernobbio, per far parlare a tradizioni e prodotti del territorio una lingua nuova, con una delle cucine più personali del paese, tecnica, precisa ma anche ironica, incernierata su una tavolozza di sapori davvero inusuali (basti pensare al suo missoltino rivisitato). O a Caterina Ceraudo (ristorante Dattilo, una stella Michelin), che lavora in punta allo stivale, a Strongoli, e dal cuore di una grande tenuta agricola e vinicola di famiglia rivede con la delicata eleganza di una cucina-acquerello ingredienti e gusti quasi ancestrali. O a Francesco Capuzzo Dolcetta, giovanissimo head chef di Marzapane, a Roma, dove, insieme al proprietario Mario Sansone, ha voluto mettere la sua passione per il canone gastronomico francese e nipponico al servizio di un’esperienza che gioca con i registri, mescolando cucina da bar e fine dining.

Pensiamo a Fabrizio Fiorani, Manuel Costardi e Gloria De Negri, tre modi di interpretare il dolce che più diversi tra loro non potrebbero essere: lei alla guida della XDolce Locanda, a Verona, laboratorio di Giancarlo Perbellini, di cui, pur giovanissima, è anche socia e dove rilegge in chiave disinvolta i grandi classici della tradizione; Manuel Costardi che con il fratello Christian ha dipinto di punk il ristorante dell’albergo di famiglia, a Vercelli (Cinzia da Christian e Manuel, una stella Michelin), rivoluzionando modi e senso del risotto, comunicazione e carta dei dolci: nella sua mano diventano giocosa esplorazione, di ingredienti e forme (si veda il Magnum che strizza l’occhio al carrello dei formaggi o la serie a base di vegetali, dal cavolo cinese al fungo shiitake). Il Best Pastry Chef under 35 Fabrizio Fiorani, invece, dopo anni di collaborazioni prestigiose – da Roma a Tokyo, con Heinz Beck e Luca Fantin, e passaggi a La Posta Vecchia, Il Pellicano ed Enoteca Pinchiorri, nonché il titolo di Asia’s 50 Best Pastry Chef 2019 – è tornato nella capitale, con molti progetti tra cui quelli con Ciccio Sultano e con l’hotel The First Roma Dolce. Il suo è un linguaggio rigoroso e scanzonato insieme, legato a un’identità territoriale intesa in maniera assolutamente personale.

Che dire poi della pizza, forse l’ambito in cui più che ogni altro i giovani sono riusciti a uguagliare per fama e risultati i grandi nomi, assimilando la loro lezione ma trovando nuove strade. Dai vicoli di uno dei rioni più popolari di Napoli, dove il giovanissimo Ciro Oliva ha preso il comando del locale di famiglia Concettina ai Tre Santi, misurandosi con la tradizione partenopea – tra Margherite, calzoni fritti e pizze nel ruoto – ma affiancandola a sperimentazioni fuori dai canoni; fino ai tavoli dell’Osteria di Birra del Borgo, eclettico locale romano dove le pizze di Luca Pezzetta sono protagoniste: tonde, in teglia, alla pala, farcite, giocano tra impasti diversi e materie prime prese in prestito dal mondo brassicolo, trasformando un classico street food in proposta gourmet, ma sempre conviviale. “In pizza we trust” è invece il motto di Seu Pizza Illuminati (il locale aperto da Pier Daniele Seu con la moglie Valeria Zuppardo) e il mantra personale del nostro Best Pizza Chef under 35. Lui ha iniziato a sfornare nel seminterrato di un pub, ha conquistato premi e pubblico con pizze tonde strepitose, cornicioni soffici e sorprendenti condimenti “da cucina” (anche dolci), prendendo ispirazione da ricette della tradizione o prodotti “pop”. Da poco era partita la collaborazione con Bulgari per il “Caffè” del resort di Dubai, primo step di un progetto più ampio.

Linguaggi e modelli diversi dunque, in cui probabilmente sarà necessario cercare la chiave del sistema che verrà, anche se è troppo presto per tracciare un quadro definitivo. Di certo va fatto un distinguo, tra le iniziative adottate per far fronte nell’immediato all’emergenza (diverse di paese in paese: dalla chiusura temporanea al proseguo dell’attività in modalità delivery o soup kitchen, con l’attivazione quasi sempre di forme di cassa integrazione, a forme di crowd-funding o di contributo partecipato tramite “restaurant bonds” e simili) e quelle che dovranno ridisegnare i codici di un’intera industria dei servizi. Va detto che dalle prime arrivano forti spunti per le seconde (per un atlante degli esempi più virtuosi in tutto il mondo fate riferimento alla mappa compilata dal MAD Symposium).

Se si immagina il ristorante come una cerniera che da una parte dialoga con la filiera e dall’altra con il cliente, è chiaro che il flusso dovrà cambiare in entrambe le direzioni. Sul fronte fornitori, Capuzzo Dolcetta ipotizza uno shift ancor più deciso verso un metodo di lavoro più giornaliero, «il lavoro “del mercato”, se vuoi, con i frigo che si caricano la mattina e la sera sono vuoti. Sul lato clienti, credo che all’inizio registreremo una forte discontinuità: forse la gente sentirà la necessità di tornare a uscire, forse invece dovremo imparare a soddisfare con la stessa qualità anche un cliente che non è sempre fisicamente presente. Per questo stiamo pensando a una box per casa, studiando cotture e presentazioni ad hoc. E stiamo anche ipotizzando di ripensare la brigata, per renderla più modulabile, con il personale di cucina e sala in parte intercambiabile». Pier Daniele e Valeria Seu ragionano su come calibrare impasti e menu per il take away una volta che la situazione sarà più sotto controllo, senza abbandonare i progetti che avevano già in cantiere: «Un altro locale a Roma, dedicato alla pizza sottile della tradizione; potrebbe essere l’occasione per sdoganare nuove formule finora difficili da realizzare in Italia».

Un’altra chiave potrebbe essere quella della sinergia. In osservanza alle restrizioni imposte dall’emergenza, ristoratori, enotecari e bottegai hanno incrociato listini e mailing list; chef “gourmet” – oltre a rivedere la propria proposta in chiave semplificata – si sono reinventati selezionatori e “distributori” consegnando a domicilio non solo i loro piatti ma i prodotti di coltivatori e piccoli artigiani loro fornitori. Noi ipotizziamo che anche con l’industria alimentare (e i suoi processi) si dovrebbero allacciare sinergie: si pensi al potenziale della catena del freddo come strumento per raggiungere le case degli italiani con prodotti di concezione gastronomica.

Fabrizio Fiorani e Caterina Ceraudo parlano di semplicità. «Dovremo rinunciare ai menu di mille portate, così come a tanti ingredienti che arrivano da lontano», ragiona lui, «anche perché la gente avrà meno voglia di spendere e cercherà qualcosa di più accessibile. Questa era già l’idea della mia pasticceria: perché, ad esempio, non si dovrebbe proporre una zuppa inglese nella ristorazione di fascia alta?». E lei, che si dichiara ottimista («noi calabresi siamo abituati a combattere»), prevede che «saranno prodotti più semplici ed essenziali ad allietare la nostra diffidenza nel mondo esterno. Cercheremo sempre più certezze anche nel gusto».

Ottimista anche Caranchini, che puntualizza: «Attenzione a dare per spacciato il fine dining, come molti sembrano fare. Io dico che ne uscirà rafforzato. Non tutti dobbiamo o vogliamo diventar trattorie, ma di certo per essere sostenibili dovremo coltivare ancora di più una clientela e una filiera di prossimità», dice (raccontando che fino all’ultimo giorno di servizio possibile il suo piccolo ristorante stellato, che lui ha sempre inteso come “di quartiere”, è stato pieno), «continuando a proporre una cucina di ricerca e sensata. Credo che alla fine la gente sarà ancor più in grado di riconoscere la qualità».

Chissà se ci sarà una rivoluzione o se, gradualmente, si tornerà a uno status quo. Noi crediamo che una serie di mutamenti – la sinergia, lo scivolamento verso una cucina di mezzo (purché evoluta, non sciatta), e format snelli e adattabili – che erano già in atto, come ha ben sintetizzato David Chang in un’intervista al New York Times, ora subiranno un’accelerazione.

Chissà poi cosa faranno i macro-sistemi (guide, liste) che sulla ristorazione hanno costruito un rapporto di simbiosi potente: da loro, forse, ci aspettavamo la regia di una riscossa globale che (per ora) non è arrivata. Una cosa è certa: sopravvivrà chi continuerà a celebrare l’importanza della sostanza.

Foto: Capellino, cedro e anice nero di Caterina Ceraudo, ph. Brambilla Serrani Photographers.