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Massimo Bottura

Identità Golose 2022: gli highlights del terzo giorno

L’evoluzione-involuzione della pasta e le sue declinazioni nel mondo, ma anche il futuro come conoscenza, coscienza e responsabilità, fino a esplorare la biodiversità in Perù alla ricerca di un domani che «È difficile da intuire, impossibile da anticipare: possiamo solo sognarlo», parola di Bottura.

Riccardo Camanini — il più discreto dei Marchesi Boys, attualmente alla scalata dei The World’s 50 Best Restaurants — l’onore di inaugurare la terza giornata di Congresso. Come ogni anno lo chef di Lido 84 a Gardone Riviera (Brescia) presenta sul palco una creazione inedita, frutto di un pensiero su un bizzarro esemplare del mondo zoologico. «L’ornitorinco è un animale curioso, un po’ papera, un po’ castoro, un po’ pesce e anche un po’ velenoso — racconta —. Mi sono chiesto se la sua forma attuale fosse il risultato di un’evoluzione, un’involuzione o di qualche strano inciampo durante il percorso. E questo mi ha fatto riflettere sulla pasta. È ancora possibile immaginare prospettive inesplorate per un elemento tanto antico?». La risposta è sì, e nelle sue mani il carboidrato principe della dieta italiana prende ancora una nuova piega. Guarda alle pratiche ancestrali, come già con la cottura in vescica, e parte dalla produzione della mostarda per ottenere, dopo un lavoro di cottura a vapore e retrogradazione lungo 84 ore, un ingrediente da conservare in un liquido mellifluo insieme a frutti, verdure e spiriti. Nelle sue Lumachine di grano duro in mostarda di pere e carciofi, nei Tridenti alla zucca butternut, o ancora nei Fusilloni in mostarda di datteri e whisky, quello che è ridisegnato non è solo il gusto e la consistenza, ma anche il posizionamento all’interno del menu. La pasta del futuro — ebbene sì — si può servire come contorno

“Pastocentrica” è anche la visione di Exit Pastificio Urbano, il format concepito dal trio stellato di Contraste (Matias Perdomo, Simon Press e Thomas Piras), dove il tempo è scandito dal pre- e post- pasta, in un menu (quasi) esclusivamente dedicato. Sul palco con Arianna Consiglio, executive chef in Porta Romana, hanno portato una fideuà – è la terza volta che la cucinano – in versione italo-spagnola. Se il formato ricorda uno spaghetto spezzato, la preparazione richiama la paella, in questo caso senza riso. Respingono qualsiasi stereotipo da ristorante con tovaglietta a quadretti, in cui la pasta si fa secca, fresca, in brodo, al forno o ripiena e lavorano sulla classicità di un Raviolo di sfoglia all’uovo ripieno con formaggio di capra e spinaci, condito con burro, salvia e polvere di caffè. Perché se adoriamo la cucina delle nonne, dobbiamo amare anche quella dei nipoti.

Il caffè torna con la menzione di un primo Napoli-Tokyo – che non a caso è stato chiamato 9850, come i kilometri che separano le due città – di Salvatore Bianco, chef de Il Comandante, che per anni è stato un signature del ristorante una stella Michelin sul golfo di Napoli. «Sono partito dal chiedermi perché il ragù fosse buono. Per la carne con la sua reazione di maillard e per l’umami del pomodoro che dà dipendenza. Ragionando per sottrazione, ho eliminato quindi le proteine animali aggiungendo una miscela che fermenta per alcuni giorni a base di funghi shiitake, cipolla, soia, che lascio fermentare per richiamare la tostatura della carne con una quota di caffè sul finale». Alla continua ricerca di innovazione, nel corso dei mesi di stop per un importante intervento di ristrutturazione della cucina, lo chef originario di Torre del Greco è tornato sui libri, rispolverando ricette del ‘600. Un momento di passaggio dell’alimentazione partenopea da mangia foglie a mangia maccheroni, fertile per la nascita dello street food attravers0 la vendita di pasta con formaggio o sugna agli angoli delle strade. Una sensibilità che ha trasposto nella pasta cotta in brodo di ghiande, tabacco, tartufo nero pregiato e orzo in abbinamento a formaggio, con una grattugiata di tuber melanosporum e un brodo completamente vegetale ma dai sentori carnosi dove minestrare lo spaghetto, come a ricreare l’habitat ideale del tartufo.

Chiudendo gli occhi e assaggiando il Cous cous di manzo piccante all’harissa potremmo trovarci ovunque, magari in Tunisia, Nigeria o Camerun, quest’ultimo paese di origine dei nuovi studenti di Roots, progetto modenese di empowerment femminile dalle due anime: di sera ristorante etnico e di giorno spazio di co-working. Nel segno del melting pot è il cous cous incocciato da Zouhaira Mahmoudi, tirocinante dell’ultimo corso di formazione ideato da Caroline Caporossi — presidente dell’AIW, l’Associazione per l’Integrazione delle Donne — e Jessica Rosval, chef resident del ristorante e dimora Casa Maria Luigia. Dalle suggestioni di Food for Soul (l’organizzazione no-profit di Massimo Bottura e Lara Gilmore), questa impresa sociale ha lo scopo di inserire giovani donne migranti nella comunità modenese dopo un periodo di formazione in cucina. «Abbiamo voluto creare un piatto che utilizzasse una varietà di legumi e di semi, per aprirci a sapori e consistenze nuovi. Ci sono ingredienti che al posto della semola e dell’acqua rendono protagonisti la farina di piselli allungata con clorofilla di erbe, quella di lenticchie imbevuta di succo di verdure e harissa piccante. Così come la farina di fava idratata in latte di mandorla aromatizzato allo zafferano o quella di ceci in succo di melograno». Un piatto simbolo dell’unione e del viaggio, che interpreta uno degli elementi più cosmopoliti: quel cous cous, che in ogni paese si lega a una varietà di alimenti, dalla carne al pesce, finanche a declinazioni dolci. «Come sarebbe il vostro cous cous? A me piacerebbe — riflette a voce alta Rosval — che alzandovi vi fermaste a pensare cosa vorreste per il vostro domani, perché le nostre azioni oggi contano più di prima. Noi costruiamo comunità resilienti, lavori dignitosi e parità di genere: qual è la cosa più importante per voi?».

La Francescana Family è grande, generosa e inclusiva, ma anche pronta a lasciare che i talenti trovino la propria firma personale. Dalla scuola di Bottura al Cavallino — il ristorante targato Ferrari nel quartier generale di Maranello — Riccardo Forapani racconta il lavoro per proiettare nella contemporaneità la sua idea di classicismo. Non serve lodare l’abbondanza di materie prime della food valley emiliana, ma è importante chiedersi se ci sia, nel qui e ora della ristorazione attuale, un modo nuovo di interpretarle. Lo chef tutela dunque i gusti nella loro profondità ma ne rivede la veste estetica, in un dialogo ironico tra forma e contenuto che balza all’occhio nei piatti proposti a Identità di Formaggio. Si parte con il Finto crème caramel: una crema di Parmigiano con caramello di cipolla bruciata e aceto balsamico di Modena, nel ricordo di una frittata di cipolle che si crede dessert. Si prosegue con la Rosetta, una tradizionale pasta al forno della domenica un po’ “svuotafrigo”, che qui si compone di crema di Parmigiano in purezza, spalla di San Secondo affumicata, spuma di tosone (l’esubero dalla rifilatura delle forme di Parmigiano) e un velo di argento edibile che fa l’occhiolino all’alluminio con cui la mamma copriva le teglie. È invece uno scrigno dei gioielli di Modena e insieme un omaggio a un’icona degli anni Settanta lo Scrigno di tortellini: un guscio che racchiude la pasta mantecata in bianco, lingua salmistrata e succo di ragù, con un coperchio sottile decorato con il motivo a rosone del Duomo.

«Il futuro è oggi? Non per me. Oggi è già passato», specifica Massimo Bottura nella giornata conclusiva dei lavori; quella che per tradizione accoglie il mattatore della cucina italiana. Snocciola i numeri da capogiro dei progetti Food for Soul (a breve saranno 11 i refettori aperti nel mondo, con oltre 1,5 milioni di pasti serviti), per incarnare quel senso di responsabilità sociale che insieme al perseguimento di conoscenzacoscienza e cultura sono la cifra di ogni suo progetto. Sul tema del congresso, prosegue: «Il futuro non si può abitare. Lo si immagina, lo si costruisce, lo si prepara. Occorre imparare ad amarlo. “Coraggio” è il suo nome, così come coraggioso deve essere il suo cittadino immaginario. Proprio perché talvolta è difficile da intuire e ancora di più da accettare, è nostro compito sognarlo. Non deve essere una proiezione astratta, ma diventare il nostro compagno. Perché il futuro non è un luogo ma uno stato d’animo, e nel nostro futuro ci sarà sempre futuro». Sulle tavole dell’Osteria Francescana l’avvenire prenderà, tra pochi giorni, il corpo di “Vieni in Italia con me” — nuova carta svelata in questa occasione — e avrà il sapore di una grande tradizione gastronomica da riscoprire in chiave “panitaliana”. A 15 anni dal primo iconico menu, è un omaggio alle sagre di paese che formano i gusti regionali. Un inno agli antichi sapori della penisola, distillato in portate capaci di abbracciare sincreticamente Nord, Centro e Sud e abbattere muri e campanilismi. Panzanella, cous cous, babàPorchetta di romboRisotto come una parmigiana di melanzane e infine Quasi uno spaghetto al pomodoro: nel piatto già iconico (scelto da identità Golose come leitmotiv) si esprime un viaggio nel Belpaese che parte dai peperoni piemontesi e l’acqua di amarene emiliane, passa dai granai di Gragnano per recuperare gli spaghettini e arriva in Sicilia per chiudere con capperi e mandorle.

Dalla capitale del Perù al palco milanese, Virgilio Martinez e Pia Léon — che alla testa del suo Kjolle ha da poco conquistato il titolo di Best Female Chef 2021 per la World’s 50 Best — sintetizzano gli umori di una delle gastronomie in più rapida ascesa, quella latino-americana. C’è il racconto degli ecosistemi amazzonici e andini in una cucina che se fino a 15 anni fa non faceva altro che ricalcare stilemi francesi, oggi fa scuola nel mondo per la comunione con il territorio e con i suoi “gioielli inconsapevoli”. Forti degli studi condotti con Mater Iniciativa — un’organizzazione interdisciplinare che promuove tutto ciò che precede la confezione del piatto, dall’enorme biodiversità locale alle produzioni artigianali — gli chef presentano due ricette che sono istantanee di natura e cultura peruviana: un dessert che utilizza ogni parte di tre varietà di Theobroma (“il cibo degli dei”, nome attribuito alla pianta di cacao) e un’insalata a base di piranha e frutta tropicale. «Nel Rio delle Amazzoni non è raro si raccolgano sotto le fronde per aspettare che qualche frutto cada in acqua. Qui non abbiamo usato altro al di fuori di questo pesce, che si trova in abbondanza nei nostri fiumi, e ciò di cui si alimenta. As simple as that».

Non manca un approfondimento sull’hôtellerie di lusso, che non è mai stato terreno tanto fertile per progetti di alta ristorazione come negli ultimi mesi. A interrogarsi sul presente dell’accoglienza italiana e sui punti di distacco tra imprenditoria di tradizione familiare e grandi brand internazionali che qui stanno moltiplicando gli investimenti ci sono Alcide Leali, Ceo di Lefay Resort & Residences del Lago di Garda e Dolomiti e Salvatore Pagano, General Manager del Savoy Beach Hotel di Paestum — quest’ultimo sede del ristorante bi-stellato Tre Olivi, tra i protagonisti della giornata di giovedì. Se l’obiettivo è allargare il ventaglio dei luoghi di attrazione molto oltre le risapute Big Four (Firenze, Roma, Venezia e Milano), «lo sforzo che stiamo facendo per superare le logiche dei flussi più battuti è trasformare l’hotel nella destinazione stessa», afferma Leali. Fioriscono così i servizi dedicati al wellness e alla grande gastronomia: facce di una medesima medaglia che premia le strutture capaci di confezionare servizi su misura per una clientela che, dopo la fase pandemica, ha scoperto la staycation, il turismo di prossimità e le gemme nascoste che punteggiano il nostro territorio.

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Foto di copertina: crediti fotografici Brambilla Serrani

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